E lo chiamarono Storytelling
Devo dirvi la verità. A me, questa cosa dello storytelling che imperversa in ogni dove, che s’intromette con la sua aura di professionalità british anche quando stiamo facendo due chiacchiere in allegria, proprio non va giù. E a quanto pare non sono l’unica:
“(…) alla fine abbiamo esagerato, perché oggi da noi la parola storytelling, come il calco italiano narrazione e il suo plurale narrazioni, sono diventati un tic linguistico-mediatico, quasi un intercalare. Vietato parlare di storie, o racconti: è tutto storytelling, narrazione o narrazioni.” (Giovanna Cosenza)
E così per parlare di un’azienda si dice che dobbiamo fare storytelling; per lanciare un prodotto dobbiamo costruire uno storytelling; quando scriviamo un post facciamo storytelling; quando parliamo con un amico stiamo facendo storytelling.
E sì, ci siamo lasciati prendere la mano. E l’abbiamo fatto pure con un certo ritardo. Negli Stati Uniti si parla di storytelling fin dagli anni ‘90, quando – se vogliamo dirla con il Christian Salmon di “Storytelling. La fabbrica delle storie” – ha iniziato una “deriva” che lo ha portato nella psicologia, nelle scienze dell’educazione, nella ricerca medica, in giurisprudenza, in economia, addirittura in teologia, per non dimenticare l’economia e la politica dove ha avuto il potere di cambiare la storia (raccontando storie).
“Ehi! Ma guarda che sei tu che ci propini questa cosa dello storytelling, della storia di Martin Brando, e dell’importanza di saper raccontare!”
Abbiate un po’ di pazienza…
Il punto è che mai termine fu più efficace per descrivere quello che fa chi oggi lavora nel settore della comunicazione: raccontare storie per creare esperienze coinvolgenti. Come? Attraverso testi, immagini, video; slogan, payoff, bodycopy, visual design.
Oops! Ma questi sono termini preistorici! da comunicazione anni 90’!
“Mumble, mumble, mumble, mumble…”
In effetti, quando cominciai a lavorare nel mondo della comunicazione, le cose mi sembravano più semplici. Si prendeva un brief, si lavorava all’idea pubblicitaria, si proponeva quella che si considerava essere la migliore, si sperava che al cliente piacesse, per partire con una campagna fatta di affissioni, depliant, brochure istituzionali, biglietti da visita. Quelle più ricche potevano includere spot radiofonici. Quelle ideate nelle agenzie romane o milanesi spot televisivi. Era piuttosto facile: gli strumenti e i canali erano pochi e conosciuti; il potere della parola e dell’immagine non aveva rivali. Se azzeccavi quelle, avevi fatto bingo.
Stavo forse facendo storytelling e non me ne accorgevo? Cosa è cambiato? O meglio: è cambiato qualcosa?
Beh, è arrivata una cosa che si chiama worldwideweb e le cose, nel giro di pochissimi anni, si sono fatte molto più complicate. Per arrivare ad oggi, 5 gennaio 2017, quando il successo di un brand è misurato dalla sua capacità di fare conversazioni, dal numero di feedback positivi e di like. Oppure, se è stato lungimirante e attento (e ben consigliato), dalla sua capacità di coinvolgere il pubblico nelle SUE storie e di fargli vivere delle esperienze. Dalla sua capacità di fare storytelling.
Storia, coinvolgimento, esperienza: le parole chiave.
Credo che le nuove modalità di interazione instaurate dall’avvento dei social network abbiano radicalmente trasformato il modo in cui ci si relaziona con i brand.
E fin qui siamo tutti d’accordo, vero? VERO?
Cosa succede però se è la storia che si racconta a non essere vera? Oggi, molto più di 20 anni fa, se un brand mente, il pubblico se ne accorge, e poi son guai…
Questo cosa significa? Significa che sincerità, correttezza e trasparenza devono stare alla base del nostro storytelling. Significa che
“il contenuto viene sempre prima della storia, anche se a volte piace pensare il contrario” (Dino Amenduni)
Significa che dobbiamo partire da una base solida, valida, altrimenti, come dice il buon Ludwig, è meglio tacere.
Ora. Quante volte sono le stesse aziende a non conoscersi, a non vedere i propri punti forza, o a darli per scontati? Quante volte è proprio attraverso il racconto delle storie che un brand riesce a scoprire e definire la propria identità? È questo il vero potere dello storytelling, ciò che lo rende NECESSARIO.
È così che assume anche un compito etico: mostrare le cose rettamente, per cambiare l’aspetto sotto cui il mondo ci appare.
Lo storytelling richiede innanzitutto fiducia e relazione. Se non li deludiamo, saremo stati capaci di aver raccontato la storia giusta.
Per approfondire:
Dino Amenduni
http://www.valigiablu.it/rinunciare-allo-storytelling-sarebbe-un-regalo-ai-potenti/
Giovanna Cosenza
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/22/storytelling-a-furia-di-nominarlo-non-significa-piu-niente-peggio-sembra-una-brutta-cosa/2396532/
Christian Salmon
Storytelling. La fabbrica delle storie
Andrea Fontana
Storytelling d’impresa. La guida definitva
Ludwig Wittgenstein
Tractatus logico-philosophicus